Da William Shakespeare a Stan Lee

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William Shakespeare (1564-1616).

Il Cinema, da sempre onnivoro, ha sovente pescato a piene mani dalla letteratura.
Basti pensare alle innumerevoli trasposizioni cinematografiche di opere del Grande Bardo, da quel primo King John del 1899 al Mercante di Venezia con Al Pacino del 2004, passando attraverso le citazioni, le riletture e le ispirazioni.

Guardando a questi primo decennio del nuovo millennio, riscontriamo un’interessante nuova tendenza.

Al di là del fatto che nuovi autori di rilievo siano stati portati (verrebbe da dire, finalmente) sul grande schermo – e chiaramente alludiamo a Tolkien, Lewis e la Rowling – vero è che il reale protagonista del decennio, con almeno 10 film al suo attivo (più uno in uscita e un’altra decina in preproduzione) risponda al nome di Stan Lee.
Il creatore di Spider Man, i Fantastici Quattro, Hulk, Iron Man e Daredevil sta infatti sbancando i botteghini ormai dal 2002 con le trasposizioni cinematografiche dei suoi personaggi più amati.
Seguendo la tendenza, la storica rivale della Marvel di Lee (la DC Comics) ha dal canto suo risposto al fuoco rimettendo il campo Batman (nei due film di Nolan) e Superman (nella coraggiosa riedizione di Singer).

Ma cosa c’entra tutto questo con Shakespeare? Molto, per la verità.

L'Orgoglio della Nazione, vero "film nel film".

Il Cinema – e con lui la televisione – è spesso definito “specchio della società”.
Sappiamo bene come questo specchio sia tutt’altro che passivo. In quanto medium, mezzo di comunicazione, il Cinema parla prestando la propria voce a chi ne tira le redini. Quanto Tarantino dipinge nel suo recente Bastardi Senza Gloria in modo grottesco, è semplice verità storica: il Cinema è stato – ed è tuttora – facile mezzo di propaganda. Ma qui non ci interessano gli estremismi o le politicizzazioni.

In tante occasioni il Cinema (volendogli attribuire una volontà propria) ha inteso mostrare al pubblico ciò che il pubblico voleva. Come un antico cantore ha spesso intonato melodie note, raccontato storie conosciute o comunque esaudito le richieste del proprio uditorio.
Dieci anni fa – prima della crisi, verrebbe da dire, ma non sarebbe esatto – c’era ancora spazio per Shakespeare e il suo continuo interrogare l’umana natura. C’era ancora spazio per una certa ambiguità tra il bene e il male. Ci si poteva permettere di crogiolarsi in un’indefinita ricerca di senso. Erano possibili film come Hamlet o Quel che resta del giorno. Perfino come Matrix o The Others.

Poi, c’è stato l’11 settembre. E quello è il vero punto di svolta.
La cinematografia (quella americana, perlomeno) si “sdoppia”. Accanto a un pensiero critico nei confronti dell’involuzione culturale statunitense susseguita al tragico attentato (anche solo in modo velato o metaforico, come nelle serie Heroes o True Blood) si rafforza – come solo negli anni del Vietnam – una vera e propria corrente propagandistica, a volte esplicita (pensiamo a serie come NCIS o al comunque eccellente The Kingdom) a volte suggerita (come in Nessuna Verità).

In questo panorama storico-culturale, i supereroi Marvel hanno tutto lo spazio che vogliono.
Sono quello che l’America (una certa America) vuole raccontare, e anche quello che la gente comune vuole sentirsi raccontare. Non solo hanno problemi (o “superproblemi” per dirla con Lee) come tutti noi, ma hanno anche dei nemici ben chiari. Possono essere licenziati in tronco (come il Peter Parker di Spider Man) ma sono sempre in grado di salvare il mondo.

E qui sta il grande colpo gobbo di Stan Lee.

Edward Norton in "Hulk".

Sotto la maschera, dietro il mantello o la corazza, i suoi personaggi sono uomini normali. In questo sta la grande identificazione che sono riusciti a ingenerare, contrariamente a un Superman che si può solo ammirare. Stan Lee è stato in grado – con un linguaggio e una linearità tipici del fumetto – di proporre una vera e propria antropologia tutt’altro che banale o disprezzabile. Le sue creature sono icone, le sue vicende archetipi. Quello che il Bardo presentava, con un linguaggio certo più ricercato, mezzo millennio fa, non è poi così diverso dal ciò che ci dice Iron Man, con il suo senso di colpa e il suo desiderio di orientare il proprio genio tecnologico a difesa del mondo. O Hulk, con la continua lotta per il controllo di un quid che sente come parte di sé eppure tanto teme. O Spider Man, con la sua difficoltà nella gestione dei rapporti umani.

Stan "Marvel" Lee.

Tutto molto elementare, si dirà. Ma non sono forse altrettanto “elementari” l’invidia di Iago, la vanagloria di Falstaff, o la scellerata iniquità di Lady Macbeth?

A tempi diversi, diverse rappresentazioni, diverso linguaggio e differenti finalità.
Shakespeare raffigurava vizi e virtù umane ai tempi di un Impero in piena espansione. Stan Lee parla delle paure e delle speranze umane ai tempi di un nuovo Impero in piena crisi d’identità. Niente di strano che oggi abbia più voce in capitolo.

Non ci spingiamo oltre in un paragone che farà storcere il naso a molti. Non siamo qui per beatificare il papà dell’Uomo Ragno. Piuttosto troviamo nella sua opera il seme di riflessioni ben più profonde di quanto normalmente si pensi.

In fondo, con gli eroi di Stan Lee possiamo gustare qualcosa che a Shakepeare mancava.
Cosa? Il popcorn, ovviamente.

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venerdì 29 gennaio 2010


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